INDICE: 1. – Introduzione – 2. – Il dovere di motivazione. 3. – Segue: la chiarezza e la sinteticità. 4. – La sinteticità del giudice e quella delle parti; la sinteticità degli scritti e della discussione orale. 5. – Giurisdizioni diverse: diversi criteri? 6. – Risvolti critici delle più recenti scelte legislative: pagare per credere. Breve cenno.
1. – Introduzione
L’art. 3 del d.lgs 104/2010 (Codice del processo amministrativo) stabilisce che ogni provvedimento decisorio del giudice debba essere motivato e impone che tanto il giudice quanto le parti redigano gli atti in maniera chiara e sintetica.
L’articolo in commento recita: 1. Ogni provvedimento decisorio del giudice e’ motivato.
2. Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica”.
Il primo comma prevede -ed impone- che il provvedimento giurisdizionale contenga le ragioni che hanno indotto il giudice a prendere la decisione contenuta nel dispositivo finale del provvedimento stesso: tale obbligo, che ricalca il principio costituzionalmente sancito dall’art. 111, comma 6, della Costituzione, ha la precisa finalità di consentire di individuare le ragioni che hanno guidato il giudice e l’iter logico seguito per addivenire alla decisione assunta.
L’obbligo di motivazione così sancito è funzionale, per le parti, anche all’eventuale impugnazione, perché solo conoscendo il fondamento logico giuridico sotteso alla decisione sarà possibile valutare l’opportunità di un ulteriore grado di giudizio.
La motivazione, dunque, deve contenere -a rigore- un’effettiva giustificazione della scelta operata dal giudice, anche quando il provvedimento assume la forma dell’ordinanza o del decreto, ed è ammissibile la motivazione per relationem nei limiti dell’opportunità e della intelligibilità.
Il secondo comma dell’art. 3, che impone alle parti del giudizio di redigere gli atti in forma chiara e semplificata, trova fondamento nel principio di “economia dei mezzi processuali”: questo principio è funzionale tanto all’effettività del processo che alla ragionevole durata dello stesso.
La mancanza di chiarezza nei provvedimenti del giudice può configurarsi come un vizio d’impugnazione (la c.d. perplessità della motivazione); per le parti, invece, ha anche un valore “economico” in quanto il nuovo art. 26, comma 1, c.p.a.1 impone al giudice nella liquidazione delle spese di liti di tener conto del rispetto dei princìpi di chiarezza e sinteticità (con la conseguenza che una violazione da parte della parte soccombente potrà determinare un aggravio delle spese di giudizio mentre se la violazione è compiuta dalla parte vittoriosa si potrà addivenire alla compensazione delle spese o addirittura alla condanna al rimborso delle spese per singoli atti2).
2. – Il dovere di motivazione.
Il primo principio sancito dall’art. 3 cit. attiene il dovere di motivazione ed è di chiara matrice costituzionale (l’art. 111 della costituzione, infatti, al comma 6 prescrive che “Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”).
L’estensione della motivazione, in termini chiari ed intellegibili, è funzionale all’attuazione del giusto processo: la giurisprudenza amministrativa ha a più riprese precisato che la motivazione della sentenza non può essere -in nessun caso- apodittica o inadeguata, perché diversamente sarebbero frustrate le esigenze di tutela sostanziale non solo della parte soccombente ma anche della parte vittoriosa (la quale può sempre avere interesse a conoscerne gli elementi e le qualificazioni che hanno formato oggetto dell’accertamento giudiziale). L’obbligo di motivazione esplicitato dall’art. 3, inoltre, è esteso anche alle ordinanze cautelari3 e ai decreti presidenziali cautelari.
Il dovere di motivazione può, inoltre, essere collegato direttamente al principio della domanda: infatti, il giudice amministrativo deve pronunciarsi entro e non oltre i limiti della domanda, ossia del petitum sostanziale, con la conseguenza che anche la motivazione del provvedimento decisorio non può eccedere quanto chiesto dalle parti. In quanto attuazione del principio del giusto processo, la disposizione di cui all’art. 3, comma 1, deve essere analizzata sotto il profilo più analitico del “modo di intendere la motivazione”, ferma la connotazione di quest’ultima quale “presupposto irrinunciabile di un esercizio non autoritario della giurisdizione”4.
In particolare, da un lato l’obbligo di motivazione può essere letto in chiave formale, nel senso che lo schema legale del provvedimento giurisdizionale sarà viziato ove la motivazione manchi; dall’altro può discorrersi di requisito sostanziale in quanto oltre ad essere esistente deve essere sufficiente, chiara e coerente (carattere che può entrare in contrasto con il principio di sinteticità sancito dal successivo comma 2).
La motivazione, quindi, deve presentare alcuni caratteri peculiari:
– l’esistenza, non solo nel senso formale prefato, ma soprattutto in senso giuridico, poiché essa deve esprimere ragioni giustificative dirette a razionalizzare e a sostenere le scelte effettuate dal giudice;
– la completezza, perché deve attenere a tutte le questioni di fatto e di diritto che costituiscono l’oggetto della controversia. In relazione a questa caratteristica non può, però, dimenticarsi la questione che attiene il rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale in materia di appalti che si conclude, il più delle volte, con l’analisi del solo ricorso incidentale (ove ficcante e decisivo) che non da spazio alla decisione sul ricorso principale. Sul tema, peraltro, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è di recente pronunciata5 e, pochi giorni fa, anche l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato6. In ogni caso, il carattere della completezza non è inficiato dalle motivazioni per relationem, consentite laddove il giudice non si limiti al richiamo di altra sentenza ma faccia proprio il dispositivo con autonoma e critica valutazione;
– la coerenza, in quanto la giustificazione della decisione deve essere razionale, dovendo quindi presentare una logica connessione tra le premesse di fatto e di diritto e le conseguenze che da queste derivino rispetto alla decisione.
All’obbligo di motivazione dovrebbe corrispondere anche il potere di controllare il suo adempimento e il correlato potere sanzionatorio: nel sistema giurisdizionale amministrativo non esiste un mezzo autonomo di impugnazione della sentenza correlato al difetto di motivazione (così come previsto per il processo civile, con il ricorso ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione). Infatti, nel processo amministrativo il vizio della motivazione finisce -inevitabilmente- con l’essere inglobato nella doglianza relativa all’ingiustizia della sentenza, alla quale il giudice dell’impugnazione potrà al più porre rimedio sostituendo alla decisione ingiusta quella corretta: in questa prospettiva, il dovere di motivazione appare sfornito di idonee armi per assicurare il suo rispetto.
3. – Segue: la chiarezza e la sinteticità.
Il secondo comma dell’art. 3 cit. risponde al preciso obbiettivo di incentivare la redazione di ricorsi “chiari”, a fronte di una prassi invalsa in cui i ricorsi, oltre ad essere inutilmente molto lunghi, non contengono un’esatta suddivisione tra fatto e motivi, con conseguente frequente rischio dei c.d. “motivi intrusi”, ossia inseriti in parti del ricorso dedicate al fatto, e frequente aumento di sentenze che non esaminano tutti i motivi per la difficoltà di individuarli, con quel che ne consegue quanto ai ricorsi per revocazione (sotto questo profilo il principio di motivazione, come si vedrà in seguito, è collegato a doppio filo con il principio di chiarezza e di sinteticità qui analizzato).
Nel processo amministrativo l’obbligo per le parti di redigere gli atti processuali in maniera sintetica era stato imposto, limitatamente al contenzioso in materia di contratti pubblici, dall’art. 245, co. 2-undecies7, d.lgs. 12.4.2006, n. 163, poi modificato dall’art. 8, co. 1, lett. c) e d), d.lgs. 20.3.2010, n. 53, e integralmente sostituito dall’art. 3, co. 19, lett. d), allegato 4 al c.p.a. L’obbligo di sinteticità dei relativi atti di parte è stato confermato dal successivo art. 120, co. 10, c.p.a., che lo ha imposto anche per i “provvedimenti del giudice” (recita l’art. da ultimo citato “tutti gli atti di parte e i provvedimenti del giudice devono essere sintetici e la sentenza e’ redatta, ordinariamente, nelle forme di cui all’articolo 74”).
L’obbligo di sinteticità degli atti delle parti del giudizio è stato generalizzato dal precedente art. 3, co. 2, c.p.a., cioè esteso ad ogni contenzioso amministrativo, e ad esso è stato aggiunto anche l’obbligo di chiarezza.<
L’obbligo descritto dal comma 2 impone una trattazione ben diversa rispetto all’obbligo di motivazione, alla luce della inesistenza di criteri generici e generalizzabili (attualmente) idonei a disegnare con altrettanta precisione i confini dell’uno e dell’altro concetto.
Questa carenza di definizione di un preciso contenuto del precetto suscita alcune perplessità, sopratutto rispetto alla cogenza effettiva di detto principio e alla possibilità di generalizzarlo: d’altro canto, invero, deve rilevarsi -in chiave positiva- come la scelta di non codificare i casi nei quali un ricorso deve ritenersi non rispettoso delle regole della sinteticità e della chiarezza risponde alla logica di valutazione “caso per caso”, in quanto si tratti di situazioni che, di regola, si presentano con connotazioni diverse nei singoli casi e che perciò devono essere affidate alla valutazione del giudice, il quale è il solo che può stabilire se le parti in causa gli hanno offerto elementi di conoscenza sufficienti ad una corretta definizione della materia del contendere.
Per gli atti delle parti e con specifico riguardo ai motivi di ricorso, sebbene non si affermi che devono essere “sintetici”, si afferma che devono essere “specifici” (art. 40, c. 1, lett. d), e che i motivi proposti in violazione di tale regola sono inammissibili. L’inammissibilità consegue non solo al difetto di specificità dei motivi, ma anche al difetto di loro indicazione “distinta”. Pertanto i motivi devono essere contenuti nell’apposita parte del ricorso dedicata ai motivi, e devono essere specifici, a pena di inammissibilità.
Altro aspetto della sinteticità degli atti delle parti nel processo si riversa nella ponderata stesura degli atti nei quali l’estensione dell’intera sentenza impugnata (o citata o richiamata) è atto inutile ove sia consentita l’allegazione; stesso dicasi per i documenti che ci si dovrebbe limitare a richiamare e non a riscrivere per intero.
Nel corso dei lavori preparatori del c.p.a. era stata avanzata la proposta di ricorrere a criteri quantitativi, cioè affidando allo stesso codice il compito di definire il numero massimo delle pagine sia dei ricorsi che delle memorie e al Presidente del Consiglio di Stato o del TAR di autorizzare nei singoli casi un numero superiore, previo pagamento a titolo sanzionatorio di una somma di danaro per ogni pagina oltre il massimo consentito8, avendo come modello la normativa comunitaria (normativa, quest’utlima, per vero giustificata dalla necessità di rendere operativo anche nel suo processo il principio di massima rapidità nella trattazione delle cause predicato dalla Commissione agli Stati membri, limitando le difficoltà connesse alla necessità di procedere alla traduzione nelle diverse lingue degli atti processuali di parte e degli allegati documenti, che comportavano un anomalo allungamento della durata del processo, in parte evitabile riducendo drasticamente la qualità del materiale cartaceo da tradurre e interpretare e riducendo a ipotesi residuale la parte orale del processo).
Questo suggerimento -per fortuna- non è stato accolto dal legislatore.
La sinteticità e la chiarezza si impongono, naturalmente, anche al giudice in sede di redazione della sentenza: tanto ha ancora più valenza alla luce dei rilievi critici che tanto la dottrina quanto la stessa giurisprudenza hanno sollevata in relazione alla tecnica redazionale sia della parte in fatto che di quella in diritto.
Per quanto riguarda la prima (il fatto), si è osservato di frequente che essa o si esaurisce nella trascrizione dell’atto introduttivo del giudizio o quest’ultimo viene ignorato, il che rende difficile al lettore, non coinvolto nella vicenda contenziosa, comprendere quale era l’effettiva materia del contendere. Per la parte in diritto, invece, si è obbiettato che non di rado si riduca ad una mera adesione alle tesi svolte da una delle parti in causa o, al contrario, è inflazionata dal ripetuto richiamo a massime giurisprudenziali desunte dalle banche dati.
Un importante riferimento in tema di chiarezza e sinteticità degli atti nel processo amministrativo è la recente pronuncia del Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Sicilia9 che, pronunciando sull’appello proposto da un’impresa partecipante a gara pubblica -avverso una sentenza di TAR che aveva rigettato il ricorso contro il provvedimento che l’escludeva dalla procedura comparativa- ha ravvisato nel modus procedendi dell’appellante una violazione degli obblighi di chiarezza e sinteticità degli atti processuali imposti alle parti in causa dall’art. 3, co. 2, c.p.a.
La tesi accolta è che la prolissità dell’appello avrebbe aggravato l’attività difensiva delle controparti, costrette a fronteggiare: un numero di pagine di scritti difensivi sproporzionato rispetto alla semplicità della causa; un abuso del “copia e incolla”, utilizzato per atti presenti nel fascicolo; un’insistente ripetizione di concetti già esposti. Di conseguenza ha condannato l’appellante al pagamento non solo delle spese di giudizio, ex art. 26 co. 1, c.p.a., ma anche di una sanzione pecuniaria per il danno che con il suo comportamento processuale avrebbe arrecato ai resistenti, siccome previsto dall’art. 96, co. 3, c.p.c., che il predetto art. 26, co. 1, c.p.a. richiama
Infatti, non deve sfuggire che il secondo correttivo al Codice del processo amministrativo, approvato con d.lgs. 14.9.2012, n. 160, ha modificato l’art. 26 (già citato in premessa), aggiungendo un ultimo periodo al co. 1, nel quale è espressamente previsto che la decisione sulle spese di giudizio deve tener conto anche della violazione dei principi di chiarezza e sinteticità dettati dall’art. 3, co. 2, dello stesso Codice, ove accertata.
In effetti, la novella ha volutamente inteso recepire un orientamento da tempo consolidato nella giurisprudenza sia del giudice amministrativo che della Cassazione (ex multis, Cassazione, Sezioni Unite, 11 aprile 2012, n. 5698), concordi nel ritenere che l’inosservanza del precetto della sinteticità (e, dunque, della chiarezza, perché atti inutilmente prolissi finiscono, di norma, per essere poco chiari) negli atti processuali non può essere sottovalutata ma, al contrario, deve essere sanzionata affinché il sistema giustizia possa considerarsi effettivamente adeguato agli obiettivi che gli sono assegnati.
4. – La sinteticità del giudice e quella delle parti; la sinteticità degli scritti e della discussione orale.
Il problema più rilevante, immediatamente percepibile dalla lettura della norma -nel suo complesso esaminata- attiene al rapporto tra sinteticità e motivazione: infatti, non è chiaro fino a che punto può spingersi la sinteticità del provvedimento decisorio senza che sia violato l’obbligo di motivazione.
La sinteticità del provvedimento decisorio, infatti, potrebbe tradursi nell’impossibilità di apprendere pienamente l’iter logico e giuridico che ha seguito il giudice per addivenire alla decisione così come assunta e, di conseguenza, impedire il corretto utilizzo dei rimedi previsti dal codice del processo (sempre che si tratti di sentenza di primo grado).
Un punto di equilibrio è tanto difficile quanto essenziale da raggiungere: com’è poi stato sollevato nella materia degli appalti, l’importanza del principio di economica processuale nella sua declinazione della sinteticità, potrebbe spingersi fino a negare alla parte la tutela delle sue ragioni, in spregio dell’art. 24 della Costituzione.
Non può negarsi che la collaborazione tra le parti della questione è fondamentale per la risoluzione di questa problematica: come affermato dal Presidente del Consiglio di Stato nella sua missiva del 22 dicembre 2010, “si tratta di una disposizione di particolare importanza, che recepisce il principio di economia processuale sul quale da tempo insistono anche il legislatore ed il giudice comunitario, ma la cui completa attuazione postula la cooperazione di tutti gli operatori della giustizia: una sentenza adeguatamente motivata, ma chiara e sintetica, necessariamente presuppone che anche gli atti di parte presentino gli stessi caratteri”.
L’osservanza del precetto da parte degli avvocati finisce con l’essere il primo e più diretto strumento per realizzare una motivazione chiara e sintetica, così come voluta dal legislatore, nell’ambito di un processo razionale e ragionevolmente breve.
Infatti, in questo modo si scongiura il pericolo che il giudice scriva sentenze tese a “convincere”, invano, la parte delle ragioni per cui la tesi difensiva non ha fondamento attraverso la puntigliosa confutazione delle argomentazioni difensive.
Inoltre, esso costituisce un modo concreto per realizzare la cooperazione delle parti, che il legislatore ha posto come una vera e propria regola giuridica, laddove, all’articolo 2 del codice, stabilisce che “il giudice e le parti cooperano per la realizzazione della ragionevole durata del processo”.
Se così come descritto il dovere di sinteticità e chiarezza sembra incombere in prima battuta (ma pesantemente) sull’avvocato, v’è da dire che molto spesso la tendenza a “dilungarsi” negli scritti difensivi è collegata alla impossibilità di concreta applicazione del principio dell’oralità piena nel giudizio e, quindi, del vero contraddittorio tra le parti in udienza.
Troppo spesso, invero, si assiste alla “tarpatura delle ali” delle parti che, per ragioni estranee al principio di ragionevole durata del processo, sono costrette a discutere delle proprie posizione con i minuti contati, senza possibilità di repliche effettive e commisurate alle obiezioni delle parti (si pensi all’ipotesi di un solo ricorrente che, nella fase di replica, deve ribattere a più resistenti senza che il tempo sia commisurato a questa necessità così elementare).
Sotto altro profilo le parti rispondono ad esigenze differenti rispetto a quelle dei giudici: infatti, da un canto la prima finalità degli scritti di parte è quella di far comprendere al giudice le ragioni del proprio cliente; la seconda è quella di prevedere e contrastare gli argomenti della parte avversa; entrambe rispondono al dovere di corretto assolvimento della propria missione difensiva deve svolgersi nell’ambito di uno schema che è la sintesi delle due fondamentali esigenze.
Se questo rilievo non giustifica atti incomprensibili e prolissi (senza ragione), di certo non può scontrarsi con un obbligo tanto stringente da violare i principi dell’art. 24 della costituzione.
È fonte di aperto dibattito il dubbio se la regola della sinteticità si riferisce ai soli atti scritti o anche a quelli orali: a favore della prima conclusione è stato osservato che l’art. 3, co. 2, c.p.a. usa il termine “redigere”, che ovviamente si riferisce ad atti scritti. Si è aggiunto che il processo amministrativo ha carattere essenzialmente cartolare e che comunque, nella pubblica udienza, il Presidente del collegio giudicante dispone di strumenti idonei a consentirgli di ricondurre entro limiti fisiologici la discussione orale, indirizzandola sulle questioni da lui ritenute rilevanti al fine del decidere. Ma in senso contrario è stato osservato che il principio di sinteticità è richiamato anche con riferimento alla discussione orale sia nell’udienza cautelare (art. 55, co.7, c.p.a.) che in quella di merito (art. 73, co. 2, c.p.a.).
La sinteticità è regola di difficile applicazione, sia perché riflette il carattere di ciascun soggetto e il suo modo di affrontare i problemi, sia perché è espressione generica, che va verificata e misurata di volta in volta con riferimento alla complessità di ogni thema decidendum, per non rischiare che con l’eccessiva sinteticità di perda la chiarezza e si trascuri l’analisi esaustiva di punti cardinali della controversia.
(Il presente articolo è ispirato ad un recente intervento dell’avv. Fabrizio Lofoco nel ciclo di lezioni sul Codice del Processo Amministrativo, organizzato dalla Camera Amministrativa di Bari)
1 Art. 26 – Spese di giudizio: “ Quando emette una decisione, il giudice provvede anche sulle spese del giudizio, secondo gli articoli 91, 92, 93, 94, 96 e 97 del codice di procedura civile, tenendo anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità di cui all’articolo 3, comma 2.
Il giudice condanna d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio, quando la parte soccombente ha agito o resistito temerariamente in giudizio. Al gettito delle sanzioni previste dal presente comma si applica l’articolo 15 delle norme di attuazione”.
2 In termini, vedi R. De Nictolis, Il secondo correttivo del codice del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it, ottobre 2012; si legga l’ulteriore osservazione: “L’innovazione non può essere considerata lesiva del diritto di difesa, perché l’esercizio del diritto di difesa incontra comunque i limiti del divieto di atti emulativi, del dovere di lealtà e collaborazione processuale, del principio di economia processuale. Sicché, l’esercizio del diritto di difesa non ha come postulato anche il diritto di scrivere illimitatamente in modo prolisso e poco chiaro.
Del resto la innovazione è in perfetta coerenza con la recente adozione dei parametri di liquidazione delle spese di lite, con il d.m. n. 140/2012.
L’art. 4, c. 6, di tale d.m. dispone che costituisce elemento di valutazione negativa, in sede di liquidazione giudiziale del compenso, l’adozione di condotte abusive tali da ostacolare la definizione dei procedimenti in tempi ragionevoli. Tra le condotte abusive che ritardano la definizione dei giudizi in tempi ragionevoli non può non ascriversi la violazione dei doveri di chiarezza e sinteticità.
3 Art. 55, comma 9. cod. proc. amm. : “L’ordinanza cautelare motiva in ordine alla valutazione del pregiudizio allegato e indica i profili che, ad un sommario esame, inducono ad una ragionevole previsione sull’esito del ricorso”.
4 In termini si legga AA.VV., Il codice del Processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, a cura di Bruno Sassani e Riccardo Villata, Giappichelli, Torino, 2012, pag. 89.
5Corte di Giustizia dell’Unione Europea, X Sezione, 4 luglio 2013 (causa C 100/12)
6 Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria, 25 febbraio 2014, n. 9.
7 L’articolo citato prescriveva che: “Tutti gli atti di parte devono essere sintetici e la sentenza che decide il ricorso e’ redatta, ordinariamente, in forma semplificata”L’abrogato art. 245, co. 2-undecies, d.lgs. n.163/2006 prescriveva che tutti gli atti processuali di parte dovevano essere sintetici, ma non chiariva quali fossero gli elementi da considerare significativi della violazione di una prescrizione che il testo della norma qualificava obbligo ma che, non essendo né definita nel suo contenuto né tanto meno espressamente sanzionata, nella pratica poteva fungere solo da raccomandazione alla classe forense perché collaborasse con il giudice con comportamenti idonei a ridurre i tempi di definizione del contenzioso.
8 Il parametro di riferimento era individuato nelle «Istruzioni pratiche alle parti relative ai ricorsi diretti e alle impugnazioni», impartite dalla Corte di giustizia CE il 15.10.2004 ed emendate il 31.1.2009 allo scopo di regolamentare il comportamento al quale le parti avrebbero dovuto conformarsi nel processo che si celebrava innanzi ad esso.
9 Sentenza del n. 395/2012
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